Il governo fotocopia del soldato buono Gentiloni è la risposta sbagliata all’Italia del No

gentiloni

Renzi, Gentiloni e i dilemmi del governo-fotocopia Il dilemma di Matteo Renzi era questo: se restava a Palazzo Chigi perdeva la faccia, se lasciava Palazzo Chigi perdeva il potere.

L’ex premier ha deciso di provare ad uscirne, con un trucco, per mantenere entrambi: mantenere la faccia con delle dimissioni che preparino una ricandidatura a breve.

Mantenere il potere insediando sulla poltrona di Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, un premier che gli permettesse di varare un governo che si preannuncia come la fotocopia del suo.

La missione è compiuta, anche se sarà dura spiegarla al mondo: perché Renzi si è dimesso, se il suo tentativo è quello di lasciare tutto com’era?

E soprattutto: come si concilia il bisogno di dare al paese un governo forte, con la soluzione anemica dell’ex ministro degli Esteri?

 

La carriera di Gentiloni ha qualcosa di unico e di fenomenale.

Procede per salti di qualità asimmetrici: più perde, più viene promosso.

Moderato fini quasi alla sonnolenza, fino ad oggi incapace di discorsi politici meno che soporiferi, Paolo è una persona squisita per modi e capacità di relazione.

Ma assolutamente anticarismatico, privo di personalità politica, quasi dimesso.

Ha gestito con non pochi problemi il caso Regeni, e si è trovato (spero per errore) a pubblicare tweet di solidarietà con il governo di Erdogan proprio mentre il despota turco avviava le sue purghe contro gli oppositori democratici.

La carriera di Gentiloni è quella di un eterno numero due.

Uno che quando si è misurato con il consenso alle primarie per il sindaco di Roma è arrivato terzo (su tre!) dietro ad Ignazio Marino e David Sassoli con appena il 15%.

Uno che è finito alla Farnesina perché Giorgio Napolitano aveva sollevato dei dubbi di opportunità sulla prima proposta di Renzi, quella di dare la poltrona degli Esteri alla grintosa, secchiona e giovanissima Lia Quartapelle.

Gentiloni, conte e pronipote del Gentiloni che ai primi del Nocecento ha portato i cattolici in politica dopo il “non expredit” di Pio IX, ex sessantottino incendiario poi diventato pompiere, ex Rutelliano che ha fatto un salto di carriera abbandonando Rutelli, oggi viene di nuovo miracolato per effetto della promessa (non mantenuta) di Renzi.

“Se perdo il referendum lascio la politica”, aveva detto e ripetuto il premier, che adesso si trova costretto ad un arrocco scacchistico per cercare una nuova legittimazione nelle primarie del Pd.

Qui è necessario fare due osservazioni sull’incredibile corso della politica italiana.

La prima: il peggiore nemico di Renzi è stato lo stesso Renzi. Se il premier non avesse personalizzato la consultazione sulla riforma costituzionale, infatti, forse sarebbe ancora al suo posto, dopo aver ottenuto di poter cancellare il Senato e di trasformarlo in un suo strumento come desiderava.

È stato lui invece ad invocare il plebiscito, lui a mobilitare gli elettori che lo hanno sfiduciato.

Seconda consdierazione: il governo penombra, fotocopia, o addirittura “Avatar” (come lo ha definito Luigi Di Maio) rappresenta una sconfessione sfrontata del risultato elettorale del 4 dicembre: nessuno aveva previsto un distacco così grande, una sconfitta così umiliante, una sconfessione così plebiscitaria che ha portato a votare contro Renzi 19,5 milioni di italiani.

Oggi questo voto viene di fatto ignorato, come se fosse un incidente della storia. Fino all’ultimo Renzi ha raccontato di essere arrivato al sorpasso sugli avversari, alla vittoria sul filo di lana, e poi ha perso con venti punti (venti) di distacco.

Dal giorno dopo, complice l’incredibile benevolenza dei media che i suoi rapporti con il mondo dei poteri italiani continuano a concedergli, ha provato a far raccontare ai suoi che il 40% ottenuto in realtà è una grande vittoria.

Il Governo-fotocopia, tuttavia, non può essere la risposta all’Italia del No emersa dalle urne.

Contro il premier, nelle urne, malgrado una campagna ossessiva e pervasiva si sono unite tutte le sue vittime, tutti gli elettori persi dalla sinistra in questi anni,

L’Italia della #buonascuola che è sembrata una beffa, quella del Jobs act (che ha prodotto 600 mila voucher), quella del pastrocchio sulla finta abolizione di Equitalia, delle tasse che appaiono e scompaiono (l’Imi proposta dal Pd e ritirata a soli tre giorni dal voto), quella del canone Rai in bolletta (per finanziare una Rai occupata dal partito), quella dei bonus clientelari distribuiti a go-go (persino un contributo Stradivari), l’Italia dei salvaguardati a rate della legge Fornero, della tassa sulla casa cancellata e poi triplicata, della manovra bocciata da Bruxelles.

Questo governo è stato anche quelll dei soldi dati al governatore De Luca mentre esaltava il valore delle clientele (non era crozza che imitava De Luca, ma De Luca che imitava Crozza) e dei fondi per la sanità (50 milioni) dell’emendamento cancellato che ha tolto risorse ai malati chemioterapici pugliesi, ai bimbi malati dell’Ilva.

Un finanziamento scomparso, promesso solennemente da l premier e dal sottosegretario De Vincenti (lo rimetteremo al Senato), e poi andato in fumo: tolto una prima volta per punire Emiliano e il suo no, o per punire i pugliesi e il loro No.

Questo governo-fotocopia sarà un governo di Restaurazione che dovrà occuparsi come prima emergenza del fallimento del Monte dei Paschi di Siena.

Per sostenere il piano che i mercati hanno mandato in fumo venerdì scorso il governo aveva mandato a casa l’amministratore delegato Viola, che disturbava il progetto di JPMorgan, l’agenzia su cui cadeva la fiducia del premier.

I soldi promessi, però non sono arrivati, e adesso trema tutto il sistema bancario italiano. Ma il voto del referendum, l’incredibile vittoria del No, si collega ad una onda lunga che – come su questo sito scriviamo da mesi – sta attraversando tutto l’Occidente: è il No alle politiche di rigore, dei vincoli, dell’austerità. È il No del Grexit, del Brexit, della sconfitta di Hillary Clinton.

Dove le elites provano a ignorare questo verdetto, vengono travolte. Difficile immaginare che il governo Gentiloni possa rappresentare un segno di discontinuità, segnato com’è dall’adagio gattopardesco tanto amato dalle classi dirigenti italiane: far finta di cambiare per restare al proprio posto.

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