Medico chirurgo, specialista in Psicologia, psicoterapeuta
Stiamo attraversando un momento estremamente difficile, forse il più difficile che io abbia mai vissuto da quando mi occupo di immigrazione e immigrati.
Tutti i giorni sappiamo dai media quante persone abbiamo salvato e quante ne sono morte. Ho fatto un po’ di conti da sola, in base all’esperienza. Su 3500 salvate ogni giorno, quelle decedute sono circa 30. Ovviamente non tutti i giorni sono uguali. Quando il mare è a forza 3 o 4 nessun gommone lascia le coste libiche e questo può succedere per tre o quattro giorni di fila.
Ma quando il mare è calmo le spiagge di Sabatha pullulano di persone in attesa di salire sui gommoni. Essi vengono gonfiati sulla spiaggia, al momento, e subito vengono fatte salire decine e decine di persone. Prima gli uomini e poi donne e i bambini che vengono fatti sedere sulle ginocchia degli uomini. Nessun centimetro del gommone viene lasciato libero. E i gommoni partono, guidati da un giovanotto qualsiasi che non si distingue dagli altri. È solo un poveretto a cui è stato offerto il viaggio in cambio della sua prestazione: portare il gommone in alto mare.
A dodici miglia dalla costa libica c’è uno schieramento di navi: Marina Militare, Frontex, Ong private…Una decina in tutto, in attesa. E già dalle sei del mattino sulle navi si comincia a prepararsi, sapendo che da lì a qualche ora cominceranno i salvataggi, che sono emozionanti e quasi sempre vanno a buon fine, ma a volte sono difficili, a volte tragici.
Passiamo ora al dopo-sbarco.
Io sono nei centri di accoglienza, in provincia di Varese. Arrivano da noi dopo circa 3/4 giorni, sotto la tutela della Prefettura. Li accolgo e cerco di conoscerli uno a uno fin dal primo giorno. Conoscerli non vuol dire fare solo la visita medica per accertarmi che non abbiano malattie infettive. No. Vuol dire parlare con loro, conoscere qualcosa della loro vita, del viaggio che hanno fatto, dei mesi che hanno trascorso in Libia. Sono sempre tragedie. La Libia non è un paese, ma un inferno. Tutto quello che devo curare sono le violenze che sono state loro fatte in Libia.
Chiedo anche se al loro paese hanno studiato, che lavoro hanno fatto e trovo di tutto. Ieri per esempio in un gruppo di richiedenti asilo nigeriani c’era uno che faceva il fotografo, un altro il parrucchiere, un altro l’ingegnere informatico.
Ma in genere se provengono da Mali, Ghana, Senegal, faccio perfino fatica a parlare con loro perché non sono mai andati a scuola e parlano solo le loro lingue materne. Non riesco a immaginare che futuro possano avere in Italia. E già mi demoralizzo.
So che non avranno mai il permesso di soggiorno, né torneranno mai al loro paese. E allora mi faccio una domanda che non dovrei farmi: “Ma perché siamo andati a salvarli, se prima o poi moriranno sulla strada?”
Fonte:qui
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